Si pensi all'invettiva contro i "professori meridionali" lanciata
da Bossi nei giorni scorsi. Con gli occhi rivolti - anche se non unicamente -
alla commissione che ha bocciato "suo figlio" agli esami di maturità.
Naturalmente in base a un pregiudizio anti-padano. I più critici e insofferenti
nei confronti dei professori sono, peraltro, i genitori che di professione fanno
i professori. Pronti a criticare i metodi e la competenza dei loro colleghi,
quando si permettono di giudicare negativamente i propri figli. Allora non ci
vedono più. Perché loro la scuola e la materia la conoscono. Altro che i
professori dei loro figli. Che studino di più, che si preparino meglio. (I
professori, naturalmente, non i loro figli).
Va detto che i professori hanno contribuito ad alimentare questo clima.
Attraverso i loro sindacati, che hanno ostacolato provvedimenti e riforme volti
a promuovere percorsi di verifica e valutazione. A premiare i più presenti, i
più attivi, i più aggiornati, i più qualificati. Così è sopravvissuto
questo sistema, che penalizza - e scoraggia - i docenti preparati, motivati,
capaci, appassionati. Peraltro, molti, moltissimi. La maggioranza. In tanti
hanno preferito, piuttosto, investire in altre attività professionali, per
integrare il reddito. O per ottenere le soddisfazioni che l'insegnamento,
ridotto a routine, non è più in grado di offrire. Sono (siamo) diventati una
categoria triste.
Negli ultimi tempi, tuttavia, il declino dei professori è divenuto più rapido.
Non solo per inerzia, ma per "progetto" - dichiarato, senza
infingimenti e senza giri di parole. Basta valutare le risorse destinate alla
scuola e ai docenti dalle finanziarie. Basta ascoltare gli echi dei programmi di
governo. Che prevedono riduzioni consistenti (di personale, ma anche di
reddito): alle medie, alle superiori, all'università. Meno insegnanti, quindi.
Mentre i fondi pubblici destinati alla ricerca e all'insegnamento calano di
continuo. Dovrebbe subentrare il privato. Che, però, in generale se ne guarda
bene. Ad eccezione delle Fondazioni bancarie. Che tanto private non sono.
D'altra parte, chissenefrega. I professori, come tutti gli statali, sono una
banda di fannulloni. O almeno: una categoria da tenere sotto controllo, perché
spesso disamorati e impreparati. Maledetti professori. Soprattutto del Sud.
Soprattutto della scuola pubblica. E - si sa - gran parte dei professori sono
statali e meridionali.
Maledetti professori. Responsabili di questa generazione senza qualità e senza
cultura. Senza valori. Senza regole. Senza disciplina. Mentre i genitori, le
famiglie, i predicatori, i media, gli imprenditori. Loro sì che il buon esempio
lo danno quotidianamente. Partecipi e protagonisti di questa società
(in)civile. Ordinata, integrata, ispirata da buoni principi e tolleranza
reciproca. Per non parlare del ceto politico. Pronto a supplire alle
inadempienze e ai limiti della scuola. Guardate la nuova ministra: appena
arrivata, ha già deciso di attribuire un ruolo determinante al voto in
condotta. Con successo di pubblico e di critica.
Maledetti professori. Pretendono di insegnare in una società dove nessuno - o
quasi - ritiene di aver qualcosa da imparare. Pretendono di educare in una
società dove ogni categoria, ogni gruppo, ogni cellula, ogni molecola ritiene
di avere il monopolio dei diritti e dei valori. Pretendono di trasmettere
cultura in una società dove più della cultura conta il culturismo. Più delle
conoscenze: i muscoli. Più dell'informazione critica: le veline. Una società
in cui conti - anzi: esisti - solo se vai in tivù. Dove puoi dire la tua,
diventare "opinionista" anche (soprattutto?) se non sai nulla. Se sei
una "pupa ignorante", un tronista o un "amico" palestrato,
che legge solo i titoli della stampa gossip. Una società dove nessuno ritiene
di aver qualcosa da imparare. E non sopporta chi pretende - per professione - di
aver qualcosa da insegnare agli altri. Dunque, una società senza
"studenti". Perché dovrebbe aver bisogno di docenti?
Maledetti professori. Non servono più a nulla. Meglio abolirli per legge. E
mandarli, finalmente, a lavorare.
(
La Repubblica 25 luglio 2008
)