RELAZIONE
AL PARLAMENTO DEL MINISTRO G. FIORONI
Il
sistema educativo italiano sta vivendo una fase di difficoltà: le conseguenze
delle politiche scolastiche dell’ultima legislatura si sono abbattute
su un insieme di criticità irrisolte e su ritardi accumulatisi nel tempo in
diversi campi strategici. I colleghi parlamentari e l’opinione pubblica
conoscono le indagini
internazionali da cui emergono profili non precisamente lusinghieri dei
risultati scolastici del nostro paese; e più in generale la notevole distanza
che ancora ci separa dai traguardi fissati per il 2010 dalla Conferenza di
Lisbona.
Di
queste criticità delle più antiche e delle più recenti non intendo, in questa
sede, presentare l’ elenco, né sintetico né dettagliato. E neppure
attardarmi in una illustrazione delle specifiche responsabilità dei diversi
attori; o delle sottovalutazioni di varia natura e di diversa origine, recenti e
non recenti, che si sono scaricate su questo sistema così complesso e così
delicato, di importanza strategica per la qualità dello sviluppo civile,
sociale, economico del nostro paese. L’ attenzione di tutti, e la mia in
particolare, oggi deve concentrarsi piuttosto su quello che è necessario e
possibile fare, fin da subito e nel corso di questa legislatura.
Voglio
invece dirvi quello di cui mi sono convinto cominciando a praticare il metodo
che mi farà da bussola per tutto lo svolgimento del mio incarico, cioè
l’ascolto attento e quotidiano di chi la scuola la vive e la fa concretamente.
Del suo corpo professionale, degli insegnanti e dei dirigenti scolastici, degli
studenti, delle famiglie: prima e più che dei molti
che ne discutono da fuori e dall’alto. Voglio dirvi, in sintesi, che a
mio parere non ha orecchie per sentire né occhi per vedere chi dalle pagine
dei giornali proclama che la scuola italiana è morta, o comunque che le sue
malattie, di natura ormai cronica, sarebbero inguaribili.
Non
è affatto così. Sebbene ci troviamo di fronte alla necessità di mettere in
campo interventi capaci di innalzare il suo livello medio di qualità - in tempi
ravvicinati e in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale - è
assolutamente evidente che nella scuola italiana c’è una grande presenza di
energie professionali positive: che si manifestano in una crescente capacità di
lettura dei bisogni formativi dei giovani e anche del mondo adulto, in un
diffuso impegno nell’innovazione, in una significativa disponibilità alla
ricerca didattica sul campo e a pratiche di sperimentazione. E, voglio
sottolinearlo, in una sensibilità preziosa – spesso più acuta e reattiva di
quella di altre strutture e servizi pubblici – nei confronti di fenomeni
complessi, come l’immigrazione e il massiccio ingresso dei suoi figli nelle
nostre strutture formative, nella nostra cultura, nella nostra vita sociale. O
come l’integrazione nella scuola di tutti dei ragazzi diversamente abili.
Spesso tutto ciò si realizza anche dove le condizioni strutturali della scuola e le condizioni stesse del lavoro che vi si svolge – dalla prolungata mortificante precarietà di troppi insegnanti ai modesti livelli retributivi – potrebbero alimentare, se non giustificare, uno stato di scoraggiamento e di inerzia.
Le
esperienze scolastiche migliori sono la base da cui partire
Non
è tutto così, ma è anche così: ed è da qui, da quello che nonostante tutto
si riesce in moltissime scuole a realizzare, e dal tessuto fitto e vitale di
alleanze tra scuola e territorio che caratterizza numerose realtà del nostro
paese, che bisogna muovere. Perché l’ottimo o l’eccellente indica con
chiarezza quello che occorre contrastare e quello che occorre mettere in campo,
per costruire le condizioni e gli strumenti di uno sviluppo effettivo e
generalizzato delle risorse della scuola e delle potenzialità dell’ autonomia
scolastica. Perciò non ho in animo di elaborare l’ennesima riforma
complessiva del sistema, a cui legare il mio nome. Il mio proposito è
diverso. Il mio metodo è un altro.
La
scuola come comunità, la scuola come anima laica della società
Migliorare
le condizioni di funzionamento della scuola e dell’autonomia scolastica è un
obiettivo di straordinaria importanza per il paese, per il suo sviluppo, e per
la sua stessa identità. Il ruolo della scuola non riguarda solo la trasmissione
del sapere essenziale alla cittadinanza attiva e la formazione delle competenze
culturali e professionali necessarie all’inserimento nel mondo del lavoro. La
scuola non è solo il più importante degli strumenti di riproduzione e di
sviluppo della comunità nazionale, è o può essere essa stessa un contesto
comunitario e identitario per i milioni di persone giovani ed adulte che vi
operano e che la vivono direttamente. Una comunità in cui si realizzano
percorsi di crescita culturale ed umana, prove concrete di solidarietà e di
coesione sociale, esperienze di inclusione ed integrazione di alto valore civile
ed etico.
Nei
quartieri metropolitani più difficili è questa esperienza comunitaria che, in
molti casi, costituisce il presidio più importante contro l’isolamento e la
solitudine urbana. Ed è qui, quando la scuola è progetto condiviso e patto di
responsabilità, che si tessono la trama e l’ordito di appartenenze ed identità
che rispondono alle domande di senso di giovani e di adulti.
Se
si creano le condizioni perchè questa dimensione comunitaria possa svilupparsi
pienamente e serenamente, senza l’ossessione di trasformazioni epocali e col
sostegno delle Autonomie Locali e in primo luogo dei Comuni, la scuola può
diventare l’anima laica della società: dove si impara a porsi le domande
giuste e a trovare come rispondervi, e a misurarsi con le responsabilità e le
prove della vita adulta, come in una terra di mezzo in bilico tra tutela e
autonomia. Dove i concetti e i valori della partecipazione civile e democratica
possono uscire dalle affermazioni astratte e farsi comportamenti concreti. Non
sfugge a nessuno, e ne abbiamo numerose prove concrete anche nelle aree
territoriali in cui il tessuto democratico è più a rischio, che l’esperienza
scolastica può divenire la palestra più importante per lo sviluppo di una
cultura, e perfino di una passione, democratica dei giovani.
L’autonomia
scolastica, l’unica illuminata, e anche per questo costituzionale, riforma
degli ultimi anni, ha in sé tutte le potenzialità necessarie allo sviluppo
della dimensione comunitaria della scuola. Ma in questi anni è stata soffocata,
mortificata, non implementata. E’ importante, in questo quadro, un’azione
del Parlamento sugli organi collegiali di gestione dell’autonomia:
attualmente, sono anche nello scarto tra modalità di gestione della scuola e
autonomia scolastica, le ragioni del suo inadeguato sviluppo.
E’
urgente invertire la rotta: passa anche da qui il recupero di quella credibilità
sociale e di quella dignità professionale a cui giustamente aspira il personale
della scuola.
Scuola
e territorio. Stato, Regioni, Autonomie Locali, Autonomie Scolastiche
L’autonomia
scolastica e l’interazione, nei contesti locali, tra le diverse autonomie,
costituisce il quadro di riferimento principale dei processi di innovazione e di
riqualificazione di cui l’intero sistema educativo ha bisogno. Pretendere
di imporla dall’alto, con atti dirigistici legislativi o amministrativi,
sarebbe un grave errore. Condannato in partenza all’incomprensione e
all’inefficacia. Ciò che occorre non è una logica abrogativa che sarebbe
connotata inevitabilmente da rischi conservativi, né tanto meno la
restaurazione – evocata da non poche cassandre – di una scuola del passato
che non può più esserci perchè è scomparso il suo mondo di riferimento. Ma,
d’altro canto, bisogna evitare la pretesa , ancora una volta di cambiare tutto
e subito, anche se il nostro sistema educativo ha senza alcun dubbio bisogno di
profonde innovazioni.
La
via giusta, in un sistema fondato sulle autonomie, è quella dell’ attivazione
di processi di trasformazioni condivisi: da un lato smontando, con il metodo
del “cacciavite”, ciò che li frena o li ostacola, dall’altro mettendo in
campo ciò che occorre perchè quei processi abbiano come traguardo una maggiore
efficienza e una maggiore equità.
E’
allo Stato che spetta definire gli indirizzi e gli obiettivi formativi, ed è lo
Stato che ha la responsabilità di indicare i criteri di riferimento
dell’azione delle autonomie scolastiche funzionali e di costruire i
dispositivi di verifica oggettiva e scientifica dei risultati del sistema. Ma il
metodo, che è sempre sostanza anche della politica, deve essere quello della
concertazione con le scuole e tra le scuole e delle intese con gli attori
istituzionali – le Regioni e le Autonomie locali – che hanno competenze sul
sistema educativo. La filosofia della concertazione non deve rinchiudersi nel
solo ambito dei rapporti interistituzionali. Abbiamo bisogno di processi larghi
e plurimi di condivisione delle scelte; quindi del contributo attivo delle
organizzazioni sindacali, delle associazioni professionali, delle associazioni
dei genitori e degli studenti. Quanto maggiore sarà la loro rappresentatività
e la loro capacità di dialogo, superando logiche autoreferenziali o di nicchia,
tanto più efficaci saranno i processi e i risultati della concertazione.
E’
stato questo l’approccio che ha guidato il primo incontro del 15 giugno scorso
con le Regioni, in cui sono stati concordati i primi impegni comuni.
L’obiettivo è di procedere ad intese, che devono coinvolgere anche le
Province e i Comuni, per la qualificazione di un sistema educativo unitario, di
validità nazionale, fuori e contro ogni rischio di segmentazione territoriale
che produrrebbe insostenibili diseguaglianze dei giovani e delle famiglie
nell’accesso all’istruzione e nella qualità dei suoi processi e dei suoi
risultati. La declinazione dell’offerta formativa secondo i bisogni formativi
del territorio, che è necessaria, non può però in nessun modo dar luogo a un
diritto all’istruzione diversificato secondo il luogo di residenza e secondo
le caratteristiche economiche e sociali dell’origine familiare.
La
nostra Costituzione è assolutamente chiara a questo proposito: il diritto
all’istruzione, come il diritto alla salute, è universalistico, e deve
essere assicurato dalla Repubblica indipendentemente dalle condizioni sociali ed
economiche, dal sesso, dalle opinioni politiche, dalle scelte religiose. A
maggior ragione, in questo quadro, il diritto all’istruzione deve essere
indipendente dal luogo in cui alle persone sia capitato di nascere o di
risiedere.
All’indomani
dei risultati del referendum, possiamo dire con soddisfazione che la grande
maggioranza del Paese ha capito perfettamente il significato del diritto
costituzionale, di tipo universale e solidaristico, all’istruzione e la
portata della minaccia a questo come ad altri diritti universalistici
rappresentata dalla cosiddetta “devolution”.
Equità
ed eccellenza
La
scuola che vogliamo è una scuola capace di coniugare equità ed eccellenza,
capace di garantire
---
le pari opportunità di tutti nell’accesso all’istruzione e nella possibilità
di successo formativo
---
l’eccellenza dei risultati
---
la valorizzazione dei meriti individuali.
La
scuola deve tornare a svolgere un ruolo decisivo rispetto alla mobilità
sociale, assicurando non solo che ogni studente possa realizzare appieno le
proprie potenzialità seguendo in
libertà e responsabilità le proprie propensioni ed attitudini, ma anche
accompagnando al successo formativo e ai percorsi di istruzione superiore i
giovani migliori, qualsiasi sia la loro condizione di partenza.
Sono
segni inquietanti per le prospettive di sviluppo del paese i fenomeni di
stagnazione sociale su cui il CENSIS è tornato con una sua recente indagine, il
peggioramento delle condizioni dei figli rispetto a quelle dei padri, la
riproduzione incessante, fin dalla scuola di base, del peso dei condizionamenti
del contesto familiare di appartenenza sul successo scolastico e formativo.
Don
Milani scriveva, nei primi anni sessanta del secolo scorso, che doveva esserci
qualcosa di sbagliato in una scuola e in una società in cui i figli dei poveri
risultavano essere, immancabilmente, “i più cretini”. Come commenterebbe
oggi, a 43 anni dall’istituzione della scuola media unica e obbligatoria e a
distanza di trent’anni dall’avvio della scolarizzazione di massa, il fatto
che solo l’8% dei figli dei ceti popolari arriva a laurearsi? E il fatto che
sul successo scolastico dei ragazzi incide, ancora di più delle condizioni
economiche della famiglia, il titolo di studio dei genitori?
In
una società in cui l’apparire vale più dell’essere, l’essere meno
dell’avere, le appartenenze più delle competenze e le fedeltà più dei
meriti individuali, è importante che almeno nella scuola si sappia andare
controcorrente, e che i giovani imparino a rispettare valori diversi. Ma questo
non può avvenire se le capacità e l’impegno individuale dei singoli non
vengono riconosciuti e valorizzati. Dobbiamo sostenere ed incentivare
l’impegno dei giovani a raggiungere l’eccellenza, dentro la scuola e nei
percorsi formativi superiori.
L’istruzione
è una funzione pubblica
Ho
voluto, fin dai primi giorni del mio incarico, tornare alla definizione del
Ministero come Ministero della Pubblica Istruzione, per precisare un concetto
– e un valore – a cui tengo molto e a cui tutti dobbiamo tenere. Cioè che
in democrazia l’istruzione è una funzione pubblica, perché riguarda tutti
e perché le sue finalità sono decise dalla comunità, e che tale è e resta
indipendentemente dalla natura del soggetto che gestisce l’offerta formativa,
sempre che il soggetto gestore risponda a quelle finalità e alle regole che ne
derivano. Tutto ciò è già scritto nella legge 62, varata dal
centrosinistra, sulla parità scolastica. Sono molto preoccupato del taglio
pesante, di 167 milioni di euro, che il precedente governo ha operato su questo
capitolo. Il rischio maggiore riguarda il diritto dei bambini e delle famiglie
alla scuola per l’infanzia, per il peso specifico in questo campo che hanno le
scuole paritarie: in particolare in molti piccoli centri e nelle zone di
montagna. Queste risorse dobbiamo recuperale e orientarle sulle priorità.
Funzione
pubblica significa anche, scavando più a fondo, che la scuola non può
lasciare indietro nessuno; che deve prendersi cura anche e soprattutto di chi ha
problemi, di chi non ce la fa da solo. Anche qui soccorrono le parole della Lettera
a una professoressa che ironizzava spietatamente su una scuola che ritenesse
di essere fatta solo per quelli capaci di apprendere da sé: proprio come un
ospedale che ritenesse di doversi occupare dei sani, invece che dei malati.
Voglio
dire qualcosa, a questo proposito, su tre temi della massima importanza per il
ruolo e per la qualità del nostro sistema educativo:
---
l’integrazione scolastica dei diversamente abili
---
gli immigrati stranieri e l’interculturalità
---
l’educazione degli adulti.
L’integrazione
scolastica dei diversamente abili
Tra
le nostre specificità positive in ambito europeo c’è l’integrazione dei
diversamente abili nella scuola di tutti. Nessun altro sistema educativo ha a
questo proposito norme così perentorie come le nostre. Dobbiamo esserne
orgogliosi.
Nel
2003-2004 gli allievi diversamente abili erano 161.159: l’1,8% del totale
degli studenti, 2,3% nella scuola primaria, 2,8% nella scuola media, l’1,2%
nella scuola superiore. Un significativo aumento di allievi diversamente abili
si è avuto, negli ultimi cinque anni, anche nelle scuole non statali (0,5%):
l’inserimento di questi allievi, infatti, è uno dei requisiti richiesti per
il riconoscimento di scuola paritaria. Ma dobbiamo ancora migliorare le
condizioni e gli strumenti di un’integrazione scolastica efficace: rivedendo
l’organico degli insegnanti di sostegno, i criteri della loro distribuzione,
la loro preparazione professionale perché siano funzionali ai bisogni effettivi
dei ragazzi diversamente abili e alla classe in cui essi sono inseriti.
Ottenendo dalle ASL diagnosi effettivamente funzionali; superando le difformità
dell’integrazione scolastica tra scuola di base e scuola secondaria superiore;
costruendo le condizioni per un’organizzazione della didattica più flessibile
ed aderente ai bisogni individuali e alle classi di appartenenza; dotando le
scuole della strumentazione tecnologica necessaria. Dobbiamo anche, utilizzando
le anagrafi sanitarie, portare dentro la scuola i ragazzi diversamente abili che
ancora ne sono fuori.
La
specializzazione degli insegnanti di sostegno deve essere pienamente valorizzata
e sottratta al rischio che vada dispersa per convenienze di vario tipo. Ma è
evidente che, per l’integrazione dei ragazzi in difficoltà, è
importantissima anche la competenza e l’impegno professionale degli insegnanti
curricolari. Di questo dobbiamo prenderci cura.
Come
primo intervento su questo insieme di problemi, ritengo importante rimuovere il
bizzarro criterio di definizione dell’organico degli insegnanti di sostegno
che era stato introdotto recentemente. Quel criterio che, con logica tipicamente
aziendalistica, calcolava il numero degli insegnanti di sostegno necessari sul
numero totale degli allievi invece che sul numero degli allievi diversamente
abili. Per l’approfondimento degli altri temi è stato immediatamente attivato
il rapporto con l’Osservatorio sull’handicap e con le associazioni che se ne
occupano.
Ma
anche a questo proposito è essenziale il rapporto con la scuola reale, sia per
avere il quadro esatto delle criticità sia per raccogliere nuove proposte. Se
l’integrazione scolastica dei diversamente abili è sempre un vantaggio per i
ragazzi che non lo sono perché possono nell’incontro quotidiano con loro
maturare capacità di rispetto e di relazionalità importantissime per la
propria formazione umana, bisogna trarre da una pratica di integrazione ormai
trentennale tutte le indicazioni utili a migliorare l’inserimento dal punto di
vista della sua efficacia sulla crescita dei ragazzi in difficoltà.
La
scuola e i figli dell’immigrazione
Un
tema strategico è costituito dall’impatto nella nostra scuola
dell’inserimento dei figli dell’immigrazione: nel 2003-2004 erano più di
300.000, presenti ormai nel 52,9% degli istituti scolastici. La maggior parte
degli stranieri si iscrive nella scuola statale (271.718), solo 31.556 sono in
quella non statale. Il maggiore addensamento di iscrizioni è nella scuola
primaria (4,7%) e nella scuola media (4,1%), mentre siamo solo all’1,9% - ma
in crescita evidente negli ultimi anni – nella scuola secondaria superiore. I
valori più alti sono nelle regioni del Nord: il più alto è in Emilia Romagna
(6,4%), seguita da Lombardia, Veneto, Marche; il più basso in Sardegna (0,5%).
Se
l’accoglienza è, nell’insieme, di buon livello, è però evidente che il
percorso scolastico dei ragazzi stranieri si presenta più difficile che per gli
studenti italiani. I ritardi e gli insuccessi sono più numerosi
fin dalla scuola di base: già nella scuola elementare si riscontra un
3,4% in più di non promossi tra gli stranieri, e un 7,1% in più nella scuola
media. Lo scarto è ancora più vistoso nella scuola secondaria superiore, dove
raggiunge il 12,6%. Tutto ciò incide non poco sugli indici di passaggio dalla
scuola di base ai percorsi scolastici e formativi successivi. E costituisce un
pericolo evidente per l’integrazione sociale e professionale dei giovani
immigrati di seconda generazione.
E’
invece sostenuto l’incremento di allievi stranieri nei percorsi di formazione
professionale successivi alla scuola media, nei corsi serali per lavoratori
studenti della scuola secondaria superiore, nei corsi dei Centri Territoriali
per l’educazione degli adulti.
Sono
dunque necessari alcuni interventi di miglioramento delle condizioni
dell’integrazione, a partire dall’apprendimento della lingua italiana come
lingua seconda per i ragazzi e per i loro genitori. Se per il successo
scolastico dei ragazzi italiani conta moltissimo – e in verità troppo – il
livello di istruzione dei genitori, il fatto che in molti nuclei familiari
immigrati gli adulti non padroneggino la lingua italiana è un fattore di forte
svantaggio per i loro figli. La scuola come comunità deve significare una
responsabilizzazione anche nei confronti delle famiglie dei ragazzi stranieri.
Anche
alcuni contenuti culturali della scuola dovrebbero ampliarsi ed arricchirsi. Se
l’asse culturale della nostra scuola deve avere al centro le radici culturali
europee e sviluppare tra i giovani la comprensione e l’interiorizzazione della
nuova dimensione europea e delle tradizioni, storie, culture che vi sono sottese
e che la rendono possibile, i contenuti dell’apprendimento devono essere tali
da facilitare il rapporto e lo scambio con altre culture ed identità. E’ un
problema che, nel mondo globalizzato di oggi, riguarda la formazione di tutti .
Devono
inoltre essere messe in campo politiche, anche di formazione degli insegnanti,
che favoriscano attraverso la didattica il dialogo e la formazione
interculturale.
Dobbiamo
sapere che passano largamente dalla scuola le possibilità di costruire una
società insieme plurale e coesa, in cui gli stranieri non siano considerati
come ospiti in prova perenne ma come nuovi cittadini con diritti e doveri; e in
cui anche il paese che accoglie sia disponibile e in grado, pur senza rinunciare
alle proprie specificità, a misurarsi con l’apporto delle culture degli altri.
Un proposito difficile e tuttavia essenziale, che ha bisogno di una scuola che
faccia da ponte tra le culture di provenienza e quella di arrivo e che sia
capace di contribuire al mantenimento delle lingue e delle culture di
appartenenza. E’ grande la responsabilità del sistema educativo nel favorire,
a partire dal riconoscimento delle nostre comuni radici europee, la crescita
nelle nuove generazioni di un nuovo umanesimo, la transizione ad una società
sempre più umanizzata ed aperta.
In
questo quadro, sono grandi le potenzialità positive che possono avere le
istituzioni educative italiane e i giovani che le frequentano per costruire
rapporti di dialogo e di pace, nel Mediterraneo, con i paesi dell’altra
sponda, con il Medio Oriente, le popolazioni arabe, l’Islam moderato. Devono
essere valutate con attenzione e rispetto le richieste delle comunità di aprire
la nostra scuola anche ad occasioni di apprendimento delle lingue e delle
culture di origine.
L’educazione
degli adulti
Voglio,
infine, sollevare un tema di straordinaria importanza che è invece solitamente
relegato in posizione marginale nel dibattito e nelle politiche scolastiche, cioè
l’educazione degli adulti come elemento essenziale delle strategie
dell’apprendimento lungo tutto il corso della vita.
Sviluppare
l’educazione degli adulti dentro il nostro sistema di istruzione e formazione
ci interessa per vari ordini di motivi:
---perché
il basso livello di istruzione dei genitori ha un’influenza determinante
nell’insuccesso scolastico dei ragazzi
---
perché i limiti gravi che ancora registriamo della diffusione delle competenze
di base ed alfabetiche nella popolazione adulta anche di fasce di età giovani
è un ostacolo fortissimo per lo stesso accesso dei lavoratori alle opportunità
di formazione professionale continua e, più in generale, per l’esercizio
della cittadinanza attiva
---
perché in un mondo del lavoro caratterizzato da processi turbolenti di
trasformazione tecnologica e produttiva, la presenza di quote molto consistenti
di lavoratori con modestissimi livelli di competenze di base e funzionali si
traduce in rischi molto forti di marginalizzazione professionale e sociale, in
contraddizioni per il paese, in ostacoli alla sua crescita.
Non
dobbiamo dimenticare che solo nel 2003 siamo per la prima volta scesi al disotto
del 30% di cittadini adulti con al massimo la licenza elementare; che il
possesso di un diploma – che oggi è la soglia di istruzione considerata
essenziale (come è stata la licenza elementare negli anni 50 e la licenza media
negli anni 70) – riguarda solo poco più del 40% degli adulti in età di
lavoro; che tornano in formazione da adulti soprattutto le persone che hanno già
un livello di istruzione di livello medio ed alto, perché “la formazione
chiama formazione” e perché le aziende investono soprattutto se non
unicamente sui lavoratori meglio dotati culturalmente e meglio collocati
professionalmente.
E
neppure dobbiamo dimenticare quello che una recente indagine EUROSTAT ci
segnala, cioè che, dopo anni di retorica sull’importanza fondamentale nella
vita e nel lavoro del linguaggio dell’informatica, la gran parte degli adulti
non è in grado di aprire un personal computer e fra questi compare anche un 28%
riferito ai più giovani.
Le
strutture scolastiche italiane dedicate all’educazione degli adulti sono una
realtà già oggi piuttosto importante. Nel 2003-2004 gli iscritti ai nostri
Centri Territoriali per l’educazione degli adulti sono 470.000,di cui il 26%
sono stranieri immigrati, per un terzo almeno diplomati e laureati, che imparano
l’italiano e che conseguono, in mancanza di riconoscimento dei loro titoli di
studio, la licenza media. Mentre gli iscritti ai corsi serali della scuola
superiore per il conseguimento di qualifiche professionali e di diplomi , hanno
ricominciato a crescere, e sono oggi più di 60.000.
Anche
in questo caso abbiamo esperienze di straordinaria vitalità e qualità;
ma anche qui occorre sviluppare, qualificare, innovare: sia con
interventi e dispositivi specifici, sia promuovendo, come previsto nel programma
elettorale del governo, una norma-quadro basata sul diritto all’apprendimento
lungo tutto il corso della vita come diritto soggettivo di tutti, lavoratori e
non lavoratori. Occorrerà anche riattivare l’accordo del 2.3.2000 della
Conferenza Unificata, rimasto congelato da allora.
L’offerta
per adulti di cui attualmente disponiamo è infatti largamente
inadeguata a una domanda potenziale in continua crescita; non è ancora
sufficientemente coordinata ed integrata; è troppo limitata e rigida sul
versante del conseguimento dei diplomi, che costituisce oggi la nuova frontiera
per i giovani adulti, italiani e immigrati; ha urgente bisogno di criteri di
riferimento oggettivi e validi dovunque per la certificazione delle competenze
acquisite per via non formale e per il riconoscimento dei crediti; non è
sostenuta, come dovrebbe, da efficaci servizi di orientamento sul territorio e
di bilancio delle competenze. Nel corso della legislatura sarà necessario
promuovere, d’intesa con le Autonomie locali, una campagna di sviluppo della
domanda di istruzione e di formazione degli adulti, e in particolare dei
genitori di ragazzi in età scolare.
Contrastare
la dispersione, la madre di tutte le battaglie
Ma
dobbiamo, contestualmente, evitare il rialimentarsi continuo del bacino dei
troppo poco istruiti. E a questo proposito la madre di tutte le battaglie
consiste nel contrastare le patologie dell’insuccesso scolastico, della
demotivazione all’apprendimento,degli abbandoni. Patologie che portano,
com’è noto, a un indice di diplomati pari al 72% dei ventenni, contro l’80%
della media UE, ma inferiore anche di 15-20 punti percentuali rispetto ai paesi
con le performances migliori.
Non
c’è una ricetta unica, e nessuna ricetta è semplice. Il funzionamento della
scuola e i suoi risultati non dipendono solo dalla sua fisionomia strutturale e
neppure solo dalla sua durata: se fosse così, il nostro paese, che diploma i
suoi giovani dopo 13 anni di scuola e a 19 anni, mentre altrove il percorso
scolastico è più corto e l’età di uscita è a 18 anni, dovrebbe essere in
vantaggio. Ma le indagini internazionali comparate ci dicono cose diverse. Per
avere chiaro il quadro della complessità dell’impresa è importante
sottolineare tre dati incontrovertibili:
---
il primo è che già nella scuola media più del 2,5% dei ragazzi ne esce ogni
anno senza aver conseguito il titolo: una condizione che rende impossibile
accedere a qualsiasi ulteriore percorso formativo di carattere formale, anche
nella formazione professionale, e che condanna, se non si predispongono percorsi
di recupero del titoli di studio (oggi l’unica strada è, notoriamente, nei
corsi dei Centri per l’educazione degli adulti finalizzati al conseguimento
della licenza elementare e media) a rischi molto alti di marginalità lavorativa
e sociale. Non solo. Quasi la metà dei licenziati della scuola media ne esce
con la valutazione di “sufficiente”, che significa aver già accumulato
deficit di vario tipo nelle competenze di base e affrontare in condizioni
difficili la scuola secondaria superiore, nelle cui prime classi, infatti,
esplodono i più gravi fenomeni di dispersione;
---
il secondo è che il tasso di passaggio dei licenziati della scuola media alla
scuola superiore ha raggiunto il 97%, con un andamento in ulteriore crescita. La
situazione, dunque, è molto diversa da quella degli anni settanta, quando
l’obbligatorietà dell’istruzione era lo strumento principe, simbolico e
fattuale, per forzare la resistenza di quote ancora importanti delle famiglie ad
investire nell’istruzione lunga dei figli. Oggi il nostro problema è quello
di quel 25% di 14-18enni che alle superiori ci è andato, ma poi le ha
abbandonate o ne è stato espulso. E’ dunque indispensabile
assicurare le condizioni di una prevenzione e di un recupero della
dispersione attraverso azioni didattiche e percorsi capaci di motivare e di
rimotivare, di compensare i deficit accumulati, di assecondare e valorizzare le
propensioni, gli interessi, gli stili di apprendimento, le intelligenze, i
talenti di ogni ragazzo e ragazza. E’ un problema fatto principalmente di
fisionomia e di flessibilità dei curricoli, di qualità e specializzazione
della didattica, di capacità delle autonomie scolastiche di integrazione dei
percorsi, di orientamento, che non si risolve con scelte di tipo esclusivamente
ordinamentale e che richiede di agire contestualmente su molti e diversi fronti;
---
il terzo è che in Italia come in tutti i paesi UE si ha diritto ad
entrare nel lavoro anche prima dei 18 anni e che sono una percentuale non
insignificante i ragazzi che utilizzano questa possibilità: per le più diverse
ragioni, non riconducibili unicamente all’insuccesso/dispersione scolastica o
a difficili condizioni economiche ma anche all’attrazione del lavoro come
strumento di autonomia e come via per raggiungere un’identità adulta. Nel
programma del governo si prevede l’innalzamento dell’età dell’ingresso al
lavoro dai 15 ai 16 anni in coerenza con il prolungamento di due anni
dell’obbligo scolastico. E’ un obiettivo importante, ma è evidente che non
basterebbe se non venisse accompagnato dalla predisposizione di percorsi misti
tra formazione e lavoro in grado di assicurare il conseguimento di qualifiche
professionali e, comunque, di crediti per il conseguimento dei diplomi. Dobbiamo
tornare, quindi, sulla questione dell’apprendistato formativo, che non è
stata affatto risolta da quanto prevede in proposito la legge 30/2003; e
negoziare le condizioni perché non ci sia attività lavorativa, al di sotto dei
18 anni, che non abbia una prevalente dimensione formativa e che non conduca al
conseguimento di qualifiche professionali e/o di crediti riconoscibili per il
proseguimento in percorsi formativi ulteriori di carattere formale.
Contrastare
la dispersione, dunque, significa agire sia sul versante della prevenzione che
su quello della compensazione. Concentrare l’attenzione non solo sulla fascia
d’età dei 14-16 anni, ma agire anche prima e anche dopo, accogliendo
l’indicazione dell’Unione Europea che considera strategico l’intervento
per il conseguimento dei diplomi e delle qualifiche nella fascia di età fino ai
25 anni. Adottare l’approccio del lifelong
learning, tipico di una società democratica ed aperta, che significa non
dare mai per scontato che la prima volta è quella definitiva e che le scelte e
i risultati siano irreversibili. Prendere sul serio le strategie
dell’orientamento. Intervenire sul cuore dell’apprendimento che è la qualità
della relazione educativa, e quindi sulla cultura professionale degli insegnanti
e sulla qualità della didattica. Non lasciare mai sola la scuola, favorendone
l’alleanza con le forze vive e con le risorse del territorio.
E
non dimenticare anche in questo caso la lezione di Don Milani, quando scriveva
che non c’è peggiore ingiustizia che presentare la stessa identica minestra a
persone con gusti e stomaci diversi: il risultato sarà che molti non
digeriranno o smetteranno di mangiare.
Anche
su questo tema, non mancano nel sistema educativo italiano le esperienze di
eccellenza, da prendere come base di partenza per l’elaborazione di nuove
strategie.
Ci
sono piste e risultati interessanti anche nei discussi percorsi sperimentali
triennali attivati a partire dal 2003-2004 dalle Regioni, che integrano
variamente scuola e formazione professionale; apprendimenti teorici e
apprendimenti in laboratorio e in contesti operativi; sapere, saper fare, saper
essere; scuola, formazione, orientamento, esperienze di laboratorio e di lavoro.
In diverse realtà, infatti, la dispersione sta diminuendo e una percentuale
consistente degli allievi, conseguita la qualifica professionale, rientra nei
percorsi di istruzione. Si tratta, anche dal punto di vista quantitativo, di
un’ esperienza non insignificante. Gli allievi dei percorsi triennali sono
oggi 74.000, più nelle prime che nelle classi successive, con un evidente
incremento della domanda, in diverse realtà non soddisfatta per
l’insufficienza delle risorse destinate dai Ministeri dell’Istruzione e del
Lavoro. Allo stesso motivo si deve il fatto che solo in tre Regioni sia stato
attivato il previsto quarto anno di specializzazione professionale.
Non
si tratta di modelli generalizzabili sul scala nazionale, sia perché le
tipologie attivate dalle Regioni sono piuttosto diversificate nelle diverse
realtà territoriali sia perché non dovunque i sistemi locali di formazione
professionale sono adeguati per quantità e qualità ad integrarsi con la scuola
o a sviluppare percorsi autonomi con le prerogative richieste. Si tratta però
di esperienze rivelatrici di logiche e metodi interessanti, di esperienze che
mettono in atto dispositivi innovativi di orientamento, certificazione dei
crediti, definizione degli standard, formazione congiunta degli insegnanti e dei
formatori, da cui è possibile e necessario trarre stimoli ed indicazioni
concrete per mettere sui binari giusti la lotta alla dispersione.
La
priorità che dobbiamo attribuire alla lotta alla dispersione – lo ripeto
ancora – non può lasciare in ombra il traguardo dell’eccellenza. Equità ed
eccellenza vanno insieme. Il sistema educativo deve saper promuovere le
intelligenze migliori. E la Repubblica, come dice la Costituzione, deve
sostenere l’impegno dei singoli al raggiungimento dell’eccellenza. In altri
Paesi europei questo è un elemento decisivo delle politiche educative, dovremo
anche noi predisporre incentivi adeguati in questo senso.
La
scuola per l’infanzia
Per
una scuola che non lasci indietro nessuno e che sviluppi, fin dai primi anni di
vita, le capacità di apprendimento di tutti assicurando una crescita
equilibrata dei bambini anche dal punto di vista affettivo e relazionale, è
indispensabile intervenire sulla scuola per l’infanzia. Dobbiamo garantire
infatti, in tutte le aree del paese e a partire dal Mezzogiorno, un pieno
equilibrio tra domanda ed offerta. Si tratta di un diritto fondamentale per i
bambini dai tre ai sei anni, ma anche delle famiglie e in particolare delle
mamme che lavorano o vorrebbero lavorare. Le politiche per la scuola
dell’infanzia – il suo sviluppo quantitativo, la sua qualità – fanno
parte a pieno titolo delle politiche per le pari opportunità di uomini e donne
rispetto al lavoro.
Oggi
la partecipazione dei bambini alla scuola per l’infanzia, tra scuole statali,
comunali, paritarie, è molto alta e supera il 97%, il 58% dei quali nelle
scuole statali. Se consideriamo che la scuola dell’infanzia non è scuola
obbligatoria, ci rendiamo facilmente conto di che cosa questa partecipazione
significhi. Essa é il segno di una diffusa consapevolezza delle famiglie
dell’importanza della socializzazione dei bambini – tanto più acuta in una
società dei “figli unici” – e dello sviluppo delle capacità espressive,
motorie, cognitive anche prima dell’inizio della scuola di base. Ma è anche
il segno di un forte bisogno delle famiglie, non più concentrato solo nelle
aree urbane, di contesti affidabili e di qualità per la protezione e
l’educazione dei figli, anche nei primi anni di vita. Dietro a tutto ciò ci
sono anche le nuove famiglie sempre più prive delle reti familiari allargate di
una volta, e la crescente partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Una
scuola per l’infanzia di qualità, d’altro canto, è un efficace strumento
per intervenire per tempo sulle disuguaglianze derivanti dalle condizioni
sociali, economiche, culturali delle famiglie di origine. E anche per accertare
il prima possibile gli eventuali deficit sensoriali e linguistico-comunicativi
da cui molti bambini sono affetti e per intervenire in tempo.
Ma
non in tutte le scuole per l’infanzia c’è la possibilità del servizio
anche postmeridiano e serie carenze – edilizie e di servizi - si registrano
nei piccoli centri e nelle aree urbane di recente insediamento. Lo sviluppo
della scuola per l’infanzia rende necessario un impegno condiviso tra lo Stato
e i Comuni, a cui spetta l’attivazione dei servizi essenziali di mensa e di
trasporto oltre che la predisposizione degli edifici, e un miglior coordinamento
tra scuole statali, comunali, paritarie. Anche l’anticipazione dell’età
di iscrizione alla scuola per l’infanzia si inserisce, con tutta evidenza, in
questo quadro. Come è noto, essa richiede l’attivazione da parte dei Comuni
di condizioni logistiche, di servizi, di figure professionali aggiuntive non
facilmente realizzabile ovunque e in tempi brevi. Per questo ho proposto il
rinvio.
Il
Tempo Pieno e il Tempo Prolungato nella scuola di base
Tra
gli impegni dell’oggi, c’è il ripristino delle condizioni che consentano
alle autonomie scolastiche di attivare il tempo pieno e il tempo prolungato come
un modello didattico declinato sulla domanda delle famiglie e sui bisogni
educativi degli allievi, nei diversi contesti territoriali. Lo spacchettamento
del monte-ore nella somma di attività diverse , determinato nella precedente
legislatura, oltre a provocare rischi di privatizzazione familistica del
curricolo, ha riproposto una divisione tra il tempo dell’ istruzione e il
tempo dei servizi che la scuola italiana aveva superato da trent’anni,
mortificando le prerogative e le responsabilità dell’autonomia scolastica e
della comunità-scuola.
Sulle
caratteristiche del modello didattico, così come sulla strutturazione dei
curricoli, l’impegno ad evitare qualsiasi forzatura statalista e dirigista è
totale. In questo quadro, è da rivedere la logica stessa implicita
nell’emanazione delle “Indicazioni Nazionali “.
Lo
Stato non è portatore di una sua pedagogia e di una sua metodologia didattica,
il suo compito è un altro, quello di definire gli obiettivi formativi sulla cui
base diventa possibile anche una seria e scientifica valutazione dei risultati
del sistema e delle singole istituzioni scolastiche; mentre è alle autonomie
scolastiche che spetta la progettazione dei curricoli.
Anche
sui dispositivi introdotti dal governo precedente, come il Portfolio e il Tutor,
l’azione del governo non riguarda solo l’emendamento di ciò che è
inadeguato o non praticabile; la nostra bussola sta nel restituire
all’autonomia scolastica le scelte che le spettano, e la sua piena
responsabilità.
Sottolineo
inoltre la necessità di rendere pienamente attuativo ciò che è già previsto
dalle norme, cioè lo sviluppo della continuità educativa all’interno della
scuola di base. Un principio, quello della continuità, che dovrà trovare
strumentazioni efficaci anche nei percorsi ulteriori: di tipo verticale tra
scuola di base e secondo ciclo, tra questo e l’istruzione e formazione
superiore; e di tipo orizzontale, tra i diversi indirizzi, le diverse opportunità
formative, l’istruzione, la formazione, il lavoro.
Il
superamento del precariato
L’altissimo
numero di insegnanti precari costituisce un’emergenza di primaria importanza.
Sono
iscritti alle graduatorie permanenti 313.842 insegnanti non di ruolo, di cui
157.830 – i cosiddetti “precari storici” – hanno un’anzianità di
servizio di almeno 360 giorni. A questi ultimi si aggiungeranno, nel 2007-2008,
altri 67.000 docenti che stanno ultimando i corsi speciali abilitanti previsti
dalla legge 143/2004. Sempre nello stesso anno, ai 152.850 aspiranti con meno di
360 giorni di servizio, se ne aggiungeranno altri 20.000, che nel frattempo
concluderanno i corsi delle Scuole di Specializzazione di istruzione secondaria
(SSIS ).
Nel
2006-2007 i posti disponibili e vacanti sono 62.461, di cui 29.463 da turn over.
Con decreto interministeriale 79/2005 sono state autorizzate 20.000 nomine per
il 2006-2007 e 10.000 nomine per il 2007-2008 ; per altre 20.000 nomine è stata
chiesta l’autorizzazione con lettera 31.5.2006.
Sono
numeri che danno l’idea dell’enorme sproporzione tra aspiranti e posti
effettivamente disponibili, ma insieme dell’abnorme sviluppo di un precariato
alimentato incessantemente dalle regole vigenti relative alle supplenze brevi e
alla loro copertura, dalla fisionomia delle cattedre, dalle modalità di
assegnazione dell’organico. Sappiamo, d’altro canto, che le esigenze che si
determineranno per i pensionamenti dei prossimi anni sono anch’esse imponenti,
e che vi sono potenzialità interessanti di aumento dei posti disponibili
connesse allo sviluppo di alcuni settori strategici, dall’educazione degli
adulti all’istruzione tecnico-professionale superiore, dalla generalizzazione
della scuola per l’infanzia agli incrementi di scolarità derivanti
dall’immigrazione straniera.
Ma
intanto il precariato costituisce un’emergenza per la stessa qualità del
sistema educativo. Non si può pretendere, infatti,
di coinvolgere tutti gli insegnanti nella ricerca didattica e nei
processi di modernizzazione ed innovazione del sistema, di contare- come
principale risorsa della scuola – sulle loro capacità e sul loro impegno
professionale, lasciandone una parte consistente in condizioni di instabilità e
di incertezza. La mortificazione professionale non è mai una buona compagnia
nel lavoro, e tanto meno lo è in una professione che richiede comportamenti
attivi, capacità relazionali, investimento continuo e di lunga durata sugli
altri e su se stessi.
Abbiamo
bisogno, inoltre, di un ricambio generazionale, in una categoria con un livello
medio di età molto alto; e anche di una maggiore presenza nell’insegnamento
di docenti maschi. La stabilizzazione progressiva del precariato, dunque, non
è solo un problema, è anche una risorsa; e fa parte di una strategia che
comincia ad essere fortemente caldeggiata anche in ambito europeo ed
internazionale: quella di rendere più attraente la professione per i nostri
migliori laureati. L’immissione in ruolo di quote importanti degli
aspiranti, se sostenuta da efficaci interventi di formazione/lavoro, può
contribuire al miglioramento della qualità media del nostro sistema educativo.
Occorre
affrontare il problema in diversi modi. Si tratta, in primo luogo, di procedere
alla stabilizzazione progressiva degli insegnanti precari sui posti disponibili
e su quelli che via via si libereranno per i pensionamenti; ma anche di dar vita
ad un piano pluriennale che, agendo sui criteri di assegnazione degli organici,
sull’ ampliamento delle aree disciplinari di riferimento, su una gestione
delle supplenze brevi da parte delle autonomie scolastiche, consenta il
contenimento della riproduzione del precariato.
Ci
sono poi connessioni importanti tra il superamento del precariato docente e la
realizzazione di efficaci percorsi di formazione iniziale. E’ un campo molto
problematico, che richiede un approfondimento preliminare all’assunzione di
adeguate decisioni.
Meno
problematica, ma anch’essa importante, la situazione del precariato non
docente: nel 2006-2007, gli aspiranti non di ruolo sono 66.009 su un totale di
78.288 posti disponibili e vacanti ( di cui 8.167 da turn over ). In questo
settore di lavoro è peraltro urgente una ridefinizione dei fabbisogni
professionali effettivi nella scuola dell’autonomia. Per il momento abbiamo
chiesto 3.500 immissioni in ruolo in aggiunta alle 3.500 già concesse.
Edilizia
scolastica e sicurezza degli edifici
Da
qualche anno la legge 23/1996 non è stata più finanziata. Eppure è di tutta
evidenza che l’edilizia scolastica ha un’importanza determinante per una
piena fruizione del diritto allo studio e per un buon funzionamento del sistema
educativo. Allo stato attuale le carenze strutturali sono assai estese,
soprattutto nelle aree del Mezzogiorno, e si riferiscono, oltre che ad
insufficienze ed inidoneità dei locali, anche al mancato rispetto delle norme
di sicurezza. E’ noto, inoltre, che le carenze edilizie costituiscono un
vincolo rilevante al processo di generalizzazione della scuola per l’infanzia
e, più in generale, ad una didattica che valorizzi le attività di laboratorio
e che dia spazio e significato alla creatività e all’innovazione. In molte
scuole superiori , anche collocate in strutture prestigiose, mancano gli spazi
per le biblioteche e per i laboratori, gli studenti non possono disporre di
spazi propri, molte attività che sarebbero importanti anche per la motivazione
allo studio e per sentirsi parti di una comunità non possono realizzarsi per
l’insufficienza dei locali.
Ma
l’emergenza è la sicurezza. Non è più sostenibile una situazione di
potenziale rischio per gli allievi e il personale delle nostre scuole. Sto
lavorando, a questo proposito, a un Patto per la sicurezza dei nostri ragazzi,
attraverso un nuovo accordo tra Ministero, Regioni, Autonomie Locali, che renda
disponibili nuove risorse e che elimini definitivamente la prassi delle proroghe
al rispetto di quanto previsto dalla legge 626.
La
spesa per l’istruzione: uscire dall’emergenza
E’
certo, comunque, che il sistema educativo non può più sopportare tagli
indiscriminati, la penuria provoca asfissia e pericolosi ripiegamenti o,
viceversa, un disordinato e concitato muoversi delle autonomie scolastiche per
trovare, attraverso i più diversi progetti, le risorse necessarie a un
funzionamento decente delle istituzioni scolastiche. E’ anche insostenibile,
per la dignità stessa del ruolo dell’istruzione pubblica, che ci si debba
rivolgere, in molte realtà, al contributo economico delle famiglie per far
fronte alle spese di ordinario funzionamento, dalla carta per le stampanti a
quella per i servizi igienici; dalle carte geografiche alla manutenzione delle
attrezzature informatiche. Perfino per la retribuzione delle commissioni degli
esami di maturità, ho trovato una situazione, che non esito a definire
scandalosa, di prolungata non assegnazione delle risorse necessarie . E ho
dovuto intervenire, come sapete, con la logica del tappabuchi. Una situazione di
questo tipo, aggiunta alle restrizioni finanziarie piovute in questi anni sugli
Enti Locali – che sostengono una parte importantissima di spese per il
funzionamento delle scuole – deve trovare rimedio.
Uscire
dalle emergenze è obbligatorio. Per
farlo, è però necessario:
-
eliminare, se ci sono, gli sprechi di
risorse, dislocando tutto ciò che non è indispensabile all’azione
dell’amministrazione, sulle autonomie scolastiche
-
razionalizzare e riqualificare la spesa,
tenendo conto sia di specificità preziose del nostro sistema educativo (come
l’integrazione dei diversamente abili) sia di alcune emergenze o priorità
(come l’integrazione scolastica degli immigrati e lo sviluppo dei livelli di
istruzione degli adulti)
-
modificare, in questo quadro, la
fisionomia del bilancio della Pubblica Istruzione, non basandolo più sulla sola
spesa corrente ma anche sugli investimenti strategici.
Tutto
ciò comporta la definizione, in base a criteri oggettivi e scientifici, dei
livelli essenziali delle prestazioni, e quindi della spesa pro capite essenziale
per raggiungere determinati obiettivi formativi.
Anche
per questa via, dunque, si torna inevitabilmente al grande ritardo del nostro
sistema relativamente alla definizione degli standard di riferimento
dell’azione educativa, e alla necessità di superarlo in tempi brevi. Le
autonomie scolastiche hanno bisogno di questo salto di qualità, per poter
passare dalla scuola dei programmi e delle procedure ministeriali a quella della
progettazione dei curricoli; per poter valutare i risultati ottenuti e potersi
autovalutare. Si tratta di un punto di grandissima importanza, decisivo per la
qualità della scuola, cui dedicherò il massimo impegno. Attenzione ed
indirizzo necessiteranno anche i fondi derivanti dall’Unione Europea e da
altre fonti, perché siano inseriti a pieno titolo nel sostegno all’autonomia
scolastica e alle vere esigenze di una scuola che è in marcia verso
l’eccellenza.
La
valutazione del sistema
La
definizione degli obiettivi formativi, dei livelli essenziali (appropriati)
delle prestazioni, degli standard di riferimento – che è compito dello Stato
– è la sola via possibile per realizzare quello che ci chiede anche
l’Europa, cioè la trasparenza e la comparabilità dei percorsi e dei
risultati del nostro sistema educativo. Un passaggio del resto indispensabile per fondare su basi solide
la validità legale dei titoli di studio e il loro riconoscimento in
ambito europeo.
A
questo obiettivo hanno un interesse diretto
le famiglie, che hanno il diritto di conoscere i risultati del sistema e
delle singole scuole, misurati in modo scientifico sulla base di parametri
definiti; ma anche le autonomie scolastiche e gli insegnanti, per poter
orientare la loro azione, superare le criticità, misurarsi con la ricerca dei
possibili miglioramenti, leggere con chiarezza i risultati.
I
dispositivi di valutazione finora attivati, che hanno avuto comunque il pregio
di sviluppare una familiarizzazione delle scuole con le tematiche della
valutazione, hanno molti limiti: quello, strutturale, di non riferirsi ad
obiettivi formativi chiari e condivisi; e anche limiti tecnici intrinseci alle
modalità di somministrazione delle prove e ad altri aspetti non secondari.
Occorre dunque, contestualmente all’impegno principale – che riguarda
l’individuazione degli standard di riferimento dell’attività formativa –
rivedere anche alcuni elementi specifici delle tecniche di valutazione.
Gli
obiettivi da perseguire – lo ripeto per evitare ogni possibile fraintendimento
– sono comunque quelli di approdare alla definizione dei criteri scientifici
di valutabilità del sistema e delle singole istituzioni scolastiche, anche come
supporto all’autovalutazione professionale degli insegnanti.
Tutto
ciò è propedeutico a qualsiasi altro tipo di valutazione.
La
scuola secondaria superiore
Se
per il primo ciclo di istruzione c’è bisogno di modifiche mirate, da
realizzarsi con il metodo del “cacciavite”, e di un processo di
rivisitazione, supportato dai pareri e dalle competenze di chi opera
concretamente nella scuola, di specifici dispositivi e delle Indicazioni
Nazionali, per il secondo ciclo abbiamo bisogno di più tempo. Le questioni in
campo, infatti, sono molto complesse e più lungo e complesso sarà l’ascolto
degli insegnanti e dei dirigenti scolastici. E’ decisivo, in questo quadro,
attivare l’ascolto attento degli studenti e dei genitori, sentire le loro
proposte, coinvolgerli nella definizione delle scelte.
Per
questo, oltre ad aver bloccato una sperimentazione che era stata contestata
dalle Regioni e che non poteva, in effetti, disporre di tutte le condizioni
necessarie a una realizzazione significativa per l’intero sistema, abbiamo
presentato al Parlamento una proroga di 18 mesi per i decreti legislativi non
scaduti della legge-delega 53/2003 e per il conseguente differimento al
2008/2009 dell’entrata in vigore.
E’
un tempo necessario per impostare correttamente e in progress la realizzazione
degli obiettivi contenuti nel programma del governo.
Elevare
l’obbligo
Due
anni in più di istruzione sono necessari non solo per consolidare ed innalzare
le competenze di base di tutti ma anche per consentire di effettuare le scelte
di indirizzo e di percorso ad un’età non troppo acerba e con una maggiore
consapevolezza, da parte dei giovani e delle loro famiglie, delle propensioni e
delle attitudini effettive.
Non
si può scegliere, come è noto, ad occhi chiusi, né solo sulla base delle
aspettative dei nuclei familiari e delle aspirazioni connesse con le condizioni
sociali di appartenenza. Costringere
i ragazzi a scegliere troppo presto significa esporli al rischio non solo di
decisioni che appartengono più al destino sociale che alla maturazione di un
livello sufficiente di autorientamento, ma anche di scelte che ignorano o
rimuovono i talenti effettivi di ciascuno. E una scuola che mette al centro i
diritti della persona questa cosa non deve farla. Né deve farlo una società
democratica che vuole essere una società aperta.
Due
anni in più di istruzione significano anche, come ho già accennato, innalzare
dai 15 ai 16 anni l’età minima per l’ingresso al lavoro. Una
decisione del resto in linea con il rispetto che dobbiamo alla delicata età
dell’adolescenza, oltre che con la riluttanza di gran parte del mondo
imprenditoriale all’inserimento nella struttura produttiva di ragazzi troppo
giovani. E’ passata molta acqua sotto i ponti – e per fortuna – rispetto
ai tempi in cui i figli dei ceti sociali più modesti passavano direttamente
dall’infanzia alle responsabilità e alle durezze della vita adulta. Ma tra i
16 e i 18 anni, come si è già sottolineato, ogni attività lavorativa – come
in altri paesi dell’Unione Europea – deve essere integrata da una forte
dimensione formativa. Se il diritto all’istruzione, a partire da una certa
età, non può annullare il diritto al lavoro, è il lavoro che deve declinarsi
sulla necessità che anche i giovani che si inseriscono presto nel mercato del
lavoro abbiano le stesse opportunità degli altri di conseguire qualifiche
professionali e titoli di studio.
Passa
di qui, come è noto, l’incremento dell’occupabilità delle persone – cioè
la loro forza soggettiva di misurarsi con successo con le difficoltà e le
incertezze che caratterizzano oggi il lavoro - e la loro stessa possibilità di
continuare ad apprendere per tutto il corso della vita.
Il
nuovo biennio
La
sua fisionomia dovrà essere tale da contemperare diverse esigenze :
l’innalzamento delle competenze di base per tutti, lo sviluppo/verifica degli
orientamenti e delle propensioni di ciascuno, l’abbattimento drastico
dell’insuccesso scolastico, della demotivazione, degli abbandoni attraverso
una didattica capace di valorizzare le attitudini cognitive e le aspettative dei
ragazzi e delle ragazze.
Una
scommessa non semplice, come è dimostrato dal fatto che proprio sulla difficoltà
di individuare soluzioni culturali ed organizzative equilibrate, attente alle
esigenze di ciascuno, si è arenata da più di trent’anni ogni ipotesi di
riforma del secondo ciclo che fosse sufficientemente condivisa. Occorrono,
dunque, un monitoraggio attento delle esperienze in atto , il supporto di idee e
di proposte dal sistema educativo reale, l’analisi dei fabbisogni
professionali del sistema produttivo e dei servizi.
E’
comunque evidente che un biennio rigidamente scolastico, in cui la realizzazione
dei suoi diversi compiti fosse affidata unicamente all’articolazione del
curricolo in discipline generali e di indirizzo, rischierebbe di riprodurre i
fenomeni di dispersione scolastica e di esclusione formativa che vogliamo invece
contrastare. E’dunque importantissimo che il nuovo biennio, utilizzando
soprattutto la quota di monte-ore affidata all’autonomia scolastica che, come
sapete, ho portato al 20%, e attivando linguaggi e metodologie didattiche
diverse da quelle tradizionali, sappia valorizzare le diverse intelligenze e i
diversi talenti dei ragazzi. Ed è altrettanto importante,
anche nel quadro del nuovo Titolo V, che le Autonomie Scolastiche e gli
attori istituzionali responsabili della programmazione dell’offerta formativa,
sappiano predisporre i percorsi più adatti a rendere attraenti ed efficaci i
percorsi formativi tenendo conto sia delle diverse tipologie della dispersione
in questa fascia di età sia delle risorse formative attivabili nel territorio.
Il
nostro paese, infatti, non è affatto omogeneo dal punto di vista delle risorse
locali del sistema educativo e che tale omogeneità non è immediatamente
realizzabile.
D’altro
canto anche la dispersione non è un fenomeno che presenti sempre e dovunque le
stesse caratteristiche: l’insuccesso scolastico di Scampia e dei quartieri
spagnoli di Napoli non è la stessa cosa degli abbandoni precoci determinati
dall’attrattiva di un inserimento immediato nel mercato del lavoro di alcune
aree del Nord Est, e neppure la stessa cosa della rinuncia di tanti figli
dell’immigrazione, dopo la scuola media, a proseguire in qualsiasi ulteriore
percorso formativo. C’è, inoltre, un rischio di dispersione che può
essere contenuto e limitato con una didattica più attenta e con
l’integrazione di attività di orientamento e formazione professionale dentro
il percorso di istruzione; mentre in altri casi ci si deve misurare con un
rifiuto netto di qualsiasi tipo di aula, anche la più arricchita di attività
di laboratorio. E’ in ogni caso evidente che è il livello locale,quello che
consente di avere il quadro preciso dei diversi bisogni formativi, il contesto
privilegiato della progettazione organizzativa e didattica.
Decisiva,
a questo proposito, è l’attivazione di anagrafi regionali e provinciali
complete ed aggiornate di tutti i soggetti “in obbligo” e di efficaci
servizi di orientamento delle famiglie e dei ragazzi. I ritardi che si sono
accumulati su questo punto in diverse aree regionali sono tra le criticità più
acute del nostro sistema.
Non
si possono attivare gli interventi di recupero degli abbandoni se non si accerta
scientificamente e in modo aggiornato l’entità e i bisogni formativi dei drop
out : quelli che escono dalla scuola media senza licenza o in tale ritardo
scolastico da rinunciare a ogni proseguimento dell’apprendimento per via
formale ; quelli che si disperdono nel passaggio dalla scuola media alla
superiore; quelli che cadono nei primi anni della scuola superiore; quelli che
abbandonano i percorsi di formazione professionale o che escono precocemente
dall’apprendistato ; e i tanti “minori stranieri ricongiunti”, o arrivati
da soli nel nostro paese, di cui il sistema scolastico non porta traccia.
La
valorizzazione dell’ ’istruzione tecnica e professionale
Istituti
tecnici e istituti professionali costituiscono, insieme, oltre il 60% del
secondo ciclo di istruzione. Ma la
loro importanza non è solo numerica. Essi costituiscono il canale attraverso
cui la maggioranza degli studenti consegue titoli che consentono sia il
proseguimento degli studi nell’istruzione superiore, accademica e non
accademica, sia le competenze professionali per l’inserimento nel mondo del
lavoro.
Storicamente,
sono stati gli istituti tecnici ad assicurare le figure e i profili
professionali indispensabili alla nostra industria manifatturiera, e molti di
essi sono tuttora i “fiori all’occhiello” di singole aziende o di
distretti industriali. Il calo di iscrizioni che li caratterizza ormai da una
decina di anni deriva da un insieme di fattori tra cui è della massima
importanza la crisi, nell’immaginario stesso dei giovani e delle loro
famiglie, anche nel Nord Ovest, del prestigio sociale dell’industria e delle
figure professionali che vi fanno riferimento. Ma i tecnici restano un percorso
formativo della massima importanza per il paese e per i giovani; è importante
che i titoli finali consentano anche l’iscrizione all’università, ma lo è
altrettanto che la maggioranza dei diplomati entri direttamente nel mercato del
lavoro.
La
valorizzazione dell’istruzione tecnica, di cui lo sviluppo del paese ha
grandissimo bisogno, non passa dall’ improbabile licealizzazione decisa
nell’ultima legislatura. La perdita
del valore professionalizzante dei titoli finali e la riduzione della parte di
curricolo destinata alla formazione di tipo laboratoriale In questa scelta, non
a caso duramente contestata da tutte le associazioni di impresa del paese,sono
del tutto evidenti culture antiche ed obsolete che non riconoscono il profilo e la complessità della cultura tecnologica. E neppure la sua
densità culturale, umanistica e scientifica. Gli istituti tecnici e
professionali, dunque, se devono essere modernizzati nell’impianto culturale e
didattico, devono però essere tenuti lontani da processi di assimilazione ai
licei generalisti.
Anche
l’istruzione professionale statale – che rappresenta il 23% circa della
scuola secondaria superiore e che, a differenza degli istituti tecnici, non ha
subito in questi ultimi anni un calo di iscrizioni – ha bisogno urgente di
modernizzazioni ed innovazioni. A
partire dal carico eccessivo di discipline, e di saperi segmentati, che è causa
non secondaria dell’alto tasso di dispersione che si verifica nei primi due
anni. Tra le sue caratteristiche più interessanti, che ne fanno un’area di
attrazione dei giovani che, all’uscita dalla scuola media non sono propensi a
percorsi formativi lunghi, e tanto meno a percorsi che conducano
obbligatoriamente al post-secondario, c’è una ormai lunga tradizione di
rapporto con i mercati del lavoro locali, la possibilità di conseguire una
qualifica professionale di validità nazionale ( a differenza delle qualifiche
erogate dai sistemi regionali di formazione professionale ), la duratura
esperienza di integrazione tra scuola e formazione professionale, tra formazione
e lavoro.
Quello
che abbiamo scritto nel programma del governo, cioè il proposito di valorizzare
l’area formativa tecnico-professionale – nell’ambito di una più generale
valorizzazione dei percorsi di carattere scientifico - conduce necessariamente
ad averne una visione unitaria,che escluda lo spacchettamento tra tecnici e
professionali che deriverebbe da una lettura riduttiva di quanto disposto dal
nuovo Titolo V. Dobbiamo, al contrario, ricondurre in un’unica area gli
istituti tecnici e i professionali, integrarne le risorse – come già stanno
facendo numerose sperimentazioni - anche con l’apporto dei sistemi locali di
formazione professionale, flessibilizzarne il funzionamento in modo da
assicurare la possibilità di conseguimento di qualifiche e di diplomi
professionalizzanti di più livelli diversi. Tutto ciò senza alcun
pregiudizio delle competenze in merito a tutto ciò che è titolo
professionalizzante da parte delle Regioni.
Ma
la valorizzazione dell’area tecnico-professionale richiede, per essere davvero
tale, interventi importanti sia a monte che a valle. A monte significa che anche
nella scuola di base le discipline e le attività di carattere tecnologico non
devono essere considerate –come del resto auspicavano gli stessi programmi
degli anni settanta – puro spazio applicativo delle conoscenze teoriche :
figlie, cioè di un dio ( culturalmente ) minore. A valle significa che occorre
sviluppare percorsi formativo di tipo tecnico-professionale di alta
specializzazione, post secondari, ma non necessariamente di natura accademica.
L’esperienza in corso da alcuni anni degli IFTS – corsi di formazione e
istruzione tecnica superiore - e la progettazione regionale di poli formativi
“di campo”, collegati con la ricerca scientifica e con i sistemi
produttivi di riferimento sono già passi in avanti in questa direzione; e passi
importanti.
Sono
passaggi cruciali anche per contrastare il calo delle cosiddette vocazioni
scientifiche. Tale calo, infatti, non è solo il risultato delle scandalosamente
scarse prospettive di impiego dei giovani che si formano in questi campi in un
paese in cui la ricerca pubblica è stritolata dalla penuria di investimenti
politici ed economici , la ricerca privata è ridotta al lumicino, le aziende
preferiscono assumere i diplomati e i licenziati della scuola media piuttosto
che i laureati (come ci segnalano incessantemente le indagini EXCELSIOR ). La
distanza cresciuta negli ultimi anni dal sapere scientifico e tecnologico
dobbiamo assolutamente colmarla.
Su questi temi, assolutamente strategici per una moderna configurazione del secondo ciclo, il nostro impegno deve essere altissimo. Non sfugge a nessuno, infatti, la loro importanza per un nuovo sviluppo del paese, e noi investiremo in questo settore.
La
cultura umanistica, la musica, l’arte.
L’attenzione
alla cultura e alla formazione tecnico professionale va coniugata con quella
dedicata alla riqualificazione e modernizzazione degli indirizzi di carattere
umanistico anch’essi decisivi per lo sviluppo di un Paese. Io mi ostino a
ritenere che la scuola deve essere anche artefice del processo di umanizzazione
delle nuove generazioni. Il nostro Paese è caratterizzato non solo da un
patrimonio eccezionale di beni culturali, ma anche da produzioni artistiche e
culturali di grandissima importanza anche dal punto di vista economico. E’
evidente il ruolo del sistema educativo nella formazione delle professionalità
necessarie nei campi del design e della moda, del restauro, del cinema,
dell’editoria, dei media, dell’artigianato artistico, di un made in Italy di
altissimo interesse. A questo proposito svilupperemo un impegno comune tra i
ministeri dell’Istruzione e dei Beni e Attività Culturali.
In
questo quadro l’educazione musicale e artistica deve essere valorizzata nel
ciclo di base e nel secondo ciclo, sia all’interno dei curricoli di ogni
indirizzo sia con l’istituzione di percorsi specialistici finalizzati al
conseguimento di qualifiche professionali e di diplomi. Gli stessi poli di
istruzione e formazione tecnica superiore, collegati alla ricerca, che oggi
stanno progettando le Regioni, devono essere declinati anche in questo senso.
Gli
esami di Stato
La
composizione attuale delle commissioni di esame ha confermato e rafforzato la
fisionomia di un sistema educativo che rischia progressivamente di attenuare, in
tutto il percorso di studi, il valore formativo delle prove, l’importanza
dell’impegno nello studio, il significato del merito individuale.
Il
dispositivo dei “debiti” e dei “crediti”, non sostenuto da strumenti
efficaci e in tempi certi di recupero dei deficit accumulati, può avere effetti
diseducativi proprio come un esame finale in cui c’è perfetta coincidenza tra
chi ha erogato la formazione e chi ne giudica i risultati finali. Le critiche di
moltissimi studenti, che denunciano l’”inutilità” delle prove di maturità,
sono il segno di desideri positivi di cambiamento. Anche qui, dunque,
bisogna cambiare, restituendo valore e dignità al lavoro
dell’apprendimento e dell’insegnamento. In primo luogo ripristinando la
presenza dei commissari esterni nelle commissioni degli esami di Stato.
Tra
i modi per restituire tutto il loro significato ai percorsi di studio c’è
anche la valorizzazione delle politiche di orientamento. Che riguardano
l’implementazione sia dei rapporti tra il sistema educativo e il mondo del
lavoro e delle professioni sia di quelli con l’Università e con i percorsi di
istruzione superiore non accademica. Occorre riflettere sull’opportunità, tra
l’altro, di favorire l’integrazione nelle commissioni per l’accesso alle
facoltà universitarie dei nostri insegnanti della scuola superiore.
Ascoltare
la scuola concreta, ascoltare gli studenti
Dal
prossimo settembre avrà inizio una campagna di ascolto delle scuole su tutti i
temi di maggiore importanza e, in particolare, su quelli che riguardano il
secondo ciclo. Gli insegnanti, i dirigenti scolastici, gli studenti, le famiglie
saranno coinvolti nell’approfondimento dei cambiamenti necessari ed
auspicabili.
Con
gli studenti e con le famiglie, discuteremo in particolare anche proposte
innovative di sviluppo dell’educazione motoria, sanitaria, ambientale, alla
legalità. Si tratta di campi importanti per la responsabilizzazione dei giovani
rispetto a se stessi, agli altri, ai beni comuni. Una cura particolare sarà
data al rapporto tra educazione e salute, alla prevenzione delle dipendenze e
dei disturbi alimentari.
Avremo
bisogno di costruire le condizioni per tenere aperte le scuole anche di
pomeriggio, coinvolgendo le famiglie e gli attori del territorio (enti locali,
fondazioni, imprese): è un modo importante per far crescere la responsabilità
dei ragazzi rispetto alle proprie scuole, e per dar loro spazi di incontro e
cooperazione.
A
questa campagna di ascolto tengo molto. Io stesso parteciperò a tutti gli
appuntamenti regionali, perchè sono certo che è solo attraverso un processo di
condivisione che si possono affrontare questioni così vaste e di tale
complessità.
Non ci saranno, dunque, nuove edizioni di “Stati Generali” verticistici. E neppure altri manifesti evocativi di un nuovo mondo o di perentoria rottura con un mondo considerato vecchio o da buttare. Sono convinto che la scuola italiana lo apprezzerà.